Copertina Cola di Rienzo: l’ultimo tribuno del popolo nel Trecento

Cola di Rienzo: l’ultimo tribuno del popolo nel Trecento

Pubblicata il 27/05/2025

Nel bel mezzo del turbolento Trecento italiano, in una Roma orfana del papa e oppressa dai nobili, emerse la figura affascinante e contraddittoria di Cola di Rienzo. Nato in umili condizioni ma animato da grandi sogni, Cola cercò di restaurare l’antica gloria di Roma e instaurare un governo popolare in città . La sua vita fu un intreccio di idealismo e realismo politico: oratore carismatico e studioso dell’antichità, divenne tribuno del popolo acclamato dalla folla, salvo poi cadere vittima delle sue stesse ambizioni. Di seguito ripercorriamo  l’intero arco della vita di Cola di Rienzo, dal contesto in cui crebbe fino alla sua drammatica fine, esplorando anche le fonti storiche che ce ne tramandano il ricordo e l’evoluzione della sua immagine nei secoli.

 

 

Roma nel Trecento: un contesto di caos e speranze

 

 

Per capire Cola di Rienzo occorre immaginare Roma nel XIV secolo. Siamo nell’epoca della cattività avignonese: dal 1309 il papato si è trasferito ad Avignone, lasciando Roma priva del suo naturale governante e affidata a legati pontifici spesso deboli . La città è ufficialmente parte dello Stato della Chiesa, ma l’assenza del Papa apre un vuoto di potere. A colmarlo sono le potenti famiglie baronali – gli Orsini, i Colonna, i Savelli e altri – in perenne lotta fra loro per il controllo di forti, ponti e quartieri. Il popolo minuto soffre le conseguenze di questa anarchia nobiliare: un cronista romano dell’epoca descrive una città senza legge, dove “Rettori non avea. Onne dìe se commatteva. Da onne parte se derobava…” . Violenze quotidiane, rapine sulle strade perfino ai pellegrini, rapimenti di fanciulle, soprusi impuniti: Roma pare sprofondata nel disordine e nella miseria.

 

Eppure, il Trecento non è solo un’era di caos: è anche tempo di fermenti nuovi. L’Italia è frammentata in Comuni, Signorie e feudi, ma fioriscono le città-Stato e una vivace vita urbana. Roma, contrariamente all’immagine romantica di “città spopolata e in rovina”, in realtà brulica di attività: è una grande città commerciale dotata di porti sul Tevere, mercati e un ceto imprenditoriale robusto . Manca però un governo stabile: il Comune romano, che altrove in Italia aveva preso piede, a Roma non riesce a emanciparsi del tutto dall’autorità del vescovo di Roma (cioè il Papa) . In questo scenario, l’idea di restaurare una “buona signoria” popolare capace di garantire giustizia e ordine affascina molti cittadini, desiderosi di pace e stanchi delle prepotenze baronali. È il contesto ideale in cui maturano le idee di Cola di Rienzo.

 

 

Origini umili e formazione di Cola

 

 

Cola di Rienzo – al secolo Nicola di Lorenzo Gabrini, detto in dialetto romano Cola de Rienzi – nacque a Roma nel 1313 , di umili natali. Il padre Lorenzo faceva l’oste (taverniere), mentre la madre, Maddalena, guadagnava da vivere lavando panni e portando acqua . La famiglia abitava nel rione Regola, in una casa nei pressi di Ponte Rotto, lungo il Tevere, “canto fiume, fra li mulinari” – come riferisce una cronaca – ad indicare un ambiente modesto di mugnai e barcaioli sul fiume . Fin da ragazzo, Cola si distinse per intelligenza vivace e curiosità verso l’antichità. Circondato dalle vestigia dell’Impero romano, passava intere giornate a osservare e decifrare iscrizioni e marmi antichi: secondo la Cronica di un anonimo romano, “Tutta dìe se speculava nelli intagli de marmo […] tutte scritture antiche vulgarizzava. Queste figure de marmo iustamente interpretava” . Insomma, il giovane Cola sviluppò una vera passione per la Roma antica, imparando a leggere i testi latini e sognando i fasti perduti dell’Impero.

 

Un evento doloroso segnò la sua giovinezza: dopo la morte della madre, il piccolo Nicola fu mandato (intorno al 1320) presso parenti ad Anagni, cittadina a circa 70 km da Roma . Vi rimase per circa 13 anni, aiutando nei lavori agricoli ma soprattutto proseguendo gli studi letterari e di latino . Anagni, ironia della sorte, era stata residenza di papi e teatro di storici eventi (come lo “schiaffo di Anagni” dato a Bonifacio VIII nel 1303): qui Cola poté formarsi in un ambiente intriso di memorie storiche e fervore religioso. Tornò a Roma attorno ai vent’anni (verso il 1333-34) in seguito alla morte anche del padre . Ormai giovane istruito e ambizioso, Cola si dedicò alla carriera amministrativa: divenne notaio, una posizione rispettabile che gli aprì le porte della vita pubblica romana.

 

 

Dai primi incarichi alla “campagna degli affreschi”

 

 

Negli anni ’40 del Trecento, Roma sperimenta tentativi di autogoverno popolare. Proprio in quel contesto Cola di Rienzo comincia a emergere. Nel 1343 il governo cittadino formato dai cosiddetti “Tredici Buoni Uomini” – espressione del partito popolare – inviò Cola in missione diplomatica presso la corte pontificia di Avignone . Papa Clemente VI, che regnava allora, lo accolse con favore e anzi, colpito dall’eloquenza di questo notaio romano, gli conferì il titolo di notaio della Camera Apostolica (l’organismo finanziario e giudiziario pontificio) . Durante la permanenza ad Avignone, Cola non mancò di denunciare ai vertici della Chiesa la situazione intollerabile di Roma, descrivendo i baroni romani come “ladroni di strada” che permettevano omicidi, rapine, adulteri e ogni male, lasciando la città desolata . Queste parole coraggiose gli attirarono l’odio dei Colonna – una delle principali famiglie aristocratiche romane, ben rappresentata in Curia dal cardinale Giovanni Colonna . Terminata la missione, Cola tornò a Roma nel 1344 con un ruolo prestigioso e vicino al potere pontificio (notaio camerale), ma anche con la fama di chi aveva osato accusare i nobili di fronte al Papa.

 

Nel frattempo, Roma restava inquieta. Cola, che ora aveva diritto di parola nel Palazzo Senatorio sul Campidoglio, iniziò a tenere discorsi pubblici infuocati, esortando gli ufficiali e rettori cittadini a “provvedere al buono stato della città” . La sua abilità oratoria gli consentiva di toccare il cuore del popolo, ma egli capì che per ottenere un vero consenso di massa doveva parlare non solo ai colti, bensì anche al popolo analfabeta. Mise allora in atto una geniale campagna mediatica attraverso immagini: fece dipingere, in punti strategici della città, grandi affreschi allegorici che denunciavano il degrado di Roma e invocavano la salvezza.

 

Sul Campidoglio, affacciato verso il mercato (in modo da essere visto da tutti), apparve un enorme affresco: in un mare in tempesta, la figura femminile di Roma vestita a lutto, circondata dai fantasmi di antiche città cadute (Babilonia, Cartagine, Troia, Gerusalemme), invocava aiuto al cielo mentre intorno mostri e animali rappresentavano i nemici di Roma . Da un lato l’Italia e le Virtù cardinali, dall’altro la Fede cristiana supplicante Dio perché non abbandoni Roma ; tutt’intorno, animali simbolici: leoni, lupi e orsi a simboleggiare i baroni prepotenti; cani, porci e caprioli per i loro scudieri e clienti; pecore, draghi e volpi per il popolo che, all’ombra dei potenti, pensa solo ai propri piccoli affari ingiusti . Ogni figura aveva un cartiglio esplicativo, come in un fumetto ante litteram, cosicché anche chi sapeva leggere potesse capire il messaggio morale . I cronisti riferiscono che il popolo restava a bocca aperta davanti a queste immagini potenti .

 

Cola rincarò la dose con altri affreschi simbolici: a San Giovanni in Laterano scoprì un’antica tavola di marmo (la lex de imperio Vespasiani) che attestava come il Senato romano avesse dato l’investitura all’imperatore Vespasiano; Cola fece collocare quella lapide in un nuovo affresco rappresentante il Senato, e convocò un’assemblea al Laterano per leggerla pubblicamente, sostenendo così che il potere imperiale lo conferiscono i Romani . Un messaggio audace, che affermava la sovranità di Roma persino sull’Impero. Un terzo affresco apparve presso Sant’Angelo in Pescheria, raffigurante su un lato un fuoco infernale in cui ardevano nobili e popolani traditori, con Roma personificata come una vecchia che cerca scampo; sull’altro lato, in cima a un campanile altissimo da cui esce l’Agnello mistico, stavano i santi Pietro e Paolo che invocavano salvezza per “l’albergatrice nostra” (Roma) . Una colomba portava una corona di mirto a un piccolo uccellino, perché la posasse sul capo della vecchia Roma in segno di salvezza . Insomma, attraverso immagini religiose e storiche, Cola di Rienzo martellava l’idea che Roma, pur ridotta in macerie, avesse un destino grandioso da compiere, protetta dai santi e bisognosa di liberarsi dai suoi oppressori.

 

 

Il colpo di Stato del 1347: ascesa al Campidoglio

 

 

Le idee di Cola trovarono terreno fertile. Un gruppo di cittadini, affascinati dal suo programma di riscossa, cominciò a riunirsi con lui segretamente su un colle simbolico, l’Aventino – forse nel monastero di Sant’Alessio – per discutere di come sollevare Roma dal giogo baronale . Persino il rappresentante pontificio a Roma, il vicario Raymond de Chameyrac, pare desse il suo tacito consenso al nascente complotto . Arrivata la primavera del 1347, Cola ritenne il momento propizio: a fine aprile salì sul Campidoglio circondato da circa cento uomini armati, preceduto da tre vessilli carichi di significato simbolico . Sul primo gonfalone, rosso con lettere d’oro, era raffigurata Roma seduta tra due leoni, con in mano il globo e la palma della vittoria; sul secondo, bianco, c’era San Paolo con la spada e la corona della giustizia; sul terzo, San Pietro con le chiavi simbolo di concordia e pace . Questa iconografia – Roma e i protettori apostoli – annunciava il programma di Cola: rifondare un governo romano ispirato alle virtù civiche antiche e benedetto dalla fede cristiana.

 

Il popolo, incuriosito, accorse a sentire le proclamazioni. Sul Campidoglio Cola di Rienzo pronunciò un’appassionata arringa e promulgò i suoi “ordinamenti dello Buono Stato”, una serie di editti volti a ristabilire legge e giustizia in città . In sostanza, Cola proponeva di trasformare Roma in un vero Comune autonomo, con proprie leggi e risorse, governato da rappresentanti del popolo e animato dalla memoria della passata grandezza . Le sue leggi miravano a: limitare le violenze private (pena del taglione per gli omicidi, punizioni severe per calunniatori, creazione di milizie rionali e guardie pubbliche a tutela dei mercanti) ; utilizzare le risorse pubbliche per il bene comune (assistenza a orfani, vedove, monaci; istituzione di granai pubblici per far fronte alle carestie; divieto di demolire gli edifici antichi, da preservare come patrimonio di Roma) ; e soprattutto ridimensionare il potere dei nobili sulle terre e le rocche attorno a Roma . Cola stabiliva, ad esempio, che nessun barone potesse più custodire castelli, ponti o porte della città, compito che doveva spettare solo ai rettori del popolo; che i nobili garantissero la sicurezza delle strade e non offrissero rifugio a banditi; e che tutte le città e terre nel distretto romano dovessero dipendere dal Comune di Roma e non dai feudatari .

 

Si trattava di un programma rivoluzionario, esattamente l’opposto della realtà vigente sotto i baroni, e proprio per questo infiammò gli animi della gente . La folla acclamò Cola come salvatore: il popolo gli conferì pieni poteri, eleggendolo di fatto signore del Comune (pur associandogli formalmente il vicario papale, per non rompere con la Chiesa) . Nacque così il nuovo governo popolare, con Cola di Rienzo che assunse il titolo (evocativo dell’antica Repubblica romana) di Tribuno del popolo romano . Era il 20 maggio 1347: iniziava un esperimento audace di rinascita civile.

 

 

Il governo del Tribuno: riforme, gloria e illusioni

 

 

Per qualche mese, Roma conobbe un periodo di entusiasmo senza precedenti. Cola di Rienzo si mise all’opera per tradurre in realtà i suoi editti. Anzitutto affrontò con determinazione l’annosa questione dei baroni. La reazione iniziale dell’aristocrazia fu feroce: Stefano Colonna, colto di sorpresa dai proclami di Cola mentre si trovava fuori città, corse a Roma infuriato e arrivato in Campidoglio strappò i bandi annunciando che avrebbe gettato il tribuno “dalle finestre” del palazzo . Ma il popolo romano, sentendosi finalmente protetto dal nuovo governo, non tollerò l’arroganza: alle campane a martello, la gente insorse in massa e cacciò via il Colonna dalla città . Il giorno seguente, Cola ordinò a tutti i baroni di abbandonare Roma e ritirarsi nei loro castelli fuori le mura, lasciando liberi i ponti e le fortificazioni urbane che occupavano . I nobili, colti di sorpresa dal vento nuovo che soffiava, obbedirono. Il Tribuno fece arrestare e giustiziare sommariamente alcuni sgherri e uomini d’arme dei baroni sorpresi in città a delinquere , dando un segnale chiaro che la giustizia valeva ora per tutti.

 

Di fronte a questo impeto rivoluzionario, i baroni dapprima tentarono di organizzare una congiura segreta per eliminare Cola . Ma la diffidenza reciproca tra Colonna e Orsini fece fallire ogni accordo: i nobili non riuscivano ad unirsi contro il nemico comune, ognuno convinto di poter risolvere la faccenda da solo e magari trarne vantaggio personale . Così, in un curioso rovesciamento dei ruoli, furono i potenti a presentarsi uno ad uno, sconfitti, al cospetto di Cola per fargli atto di sottomissione. Uno dopo l’altro, i maggiori feudatari – Stefano Colonna, Rinaldo Orsini, Giovanni Colonna, persino gli Orsini di Monte Giordano e infine Francesco Savelli (nella cui zona Cola era nato e di cui quindi era formalmente “vassallo”) – vennero a giurare fedeltà al Tribuno e al Comune di Roma, con la mano sul Vangelo . La scena era incredibile: gli antichi padroni umiliati davanti a un uomo del popolo, in nome di un nuovo patto civile.

 

Con i nobili ridotti all’obbedienza (almeno apparente), Cola poté dedicarsi a raddrizzare le sorti della città. Seguirono mesi di riforme e ordine pubblico ristabilito. Secondo l’Anonimo Romano, quel periodo fu quasi idilliaco: “Allora le selve se comenzaro ad alegrare, perché in esse non se trovava latrone. Allora li buoi comenzaro ad arare. Li pellegrini comenzaro a fare loro cerca per le santuari… In questo tiempo paura e timore assalìo li tiranni. La bona gente, como liberata da servitute, se alegrava” . Il cronista celebra insomma la rinascita di Roma: strade finalmente sicure dai briganti, campagna di nuovo coltivata, pellegrini liberi di visitare le chiese senza paura, i “tiranni” (i baroni) atterriti e il popolo onesto esultante come liberato da una lunga schiavitù. È forse una visione un po’ idealizzata, ma altre fonti confermano che l’amministrazione di Cola fu energica ed equa: in Campidoglio si dispensava giustizia rigorosa, punendo severamente i soprusi dei nobili ma anche eventuali abusi commessi dai nuovi ufficiali popolari . Le tasse che prima finivano nelle tasche dei feudatari vennero dirottate al Comune, e la maggior parte dei romani – nobili compresi – accettò di pagarle senza troppe proteste, sperando nei benefici del nuovo regime. Chi sfidava l’autorità del Tribuno veniva affrontato militarmente: ad esempio Giovanni di Vico, signore di Viterbo, fu costretto alla pace da Cola dopo una breve campagna militare, conclusa peraltro in termini equi e non punitivi .

 

Sull’onda di questi successi interni, Cola di Rienzo iniziò a coltivare aspirazioni sempre più ampie. Si mosse in una sorta di politica estera “made in Rome”: mandò ambasciatori in giro per l’Italia, presso città e signori, nonché una lettera solenne all’imperatore e al Papa, per annunciare la nascita della “Nuova Roma” repubblicana . Ovunque, la notizia suscitò curiosità e in molti casi entusiasmo: gli inviati romani venivano accolti con tutti gli onori, e a Roma giungevano delegazioni perfino da città lontane come Venezia, Milano, la Puglia, oltre che da tutta l’Italia centrale . Si chiedeva a Cola di dirimere contese e rendere giustizia persino da Perugia e dalla Toscana . In quei mesi del 1347 Roma parve tornare davvero al centro dell’Italia, e Cola cominciò a cullare un’idea grandiosa: fare di Roma la capitale di una “Italia sacra”, rigenerata nei suoi valori, che potesse diffondere pace e giustizia nel mondo.

 

Nell’agosto 1347, Cola convocò un solenne conclave in Campidoglio (1º agosto) a cui invitò rappresentanti di tutta la penisola. In quell’occasione egli conferì simbolicamente la cittadinanza romana a tutte le città d’Italia e propose un disegno ancor più audace: l’anno seguente, 1348, si sarebbe dovuto eleggere a Roma un nuovo Imperatore dell’Italia unita ! L’idea di Cola era di restaurare l’antico binomio Roma caput mundi – Roma centro del potere universale – ma in forma moderna: un’Impero italiano (slegato dai tedeschi) sotto l’egida morale del popolo romano. Questo slancio visionario preannunciava in nuce ideali nazionalisti e unitari, seppur secoli in anticipo. Tuttavia, tali proclami iniziarono a destare preoccupazione in molti: fuori Roma, ma anche in città stessa, qualcuno iniziò a domandarsi fin dove volesse spingersi l’ambizione di Cola.

 

 

La caduta: deriva autoritaria e fine del sogno

 

 

Di lì a poco, infatti, la situazione precipitò. Come scrive un cronista, “l’incantesimo si ruppe”: in Cola di Rienzo il sentimento di grandezza – di Roma e di sé stesso – sconfinò nel delirio . I segnali del cambiamento si videro presto. Il tribuno, che fino ad allora si era presentato come il primo tra pari, iniziò a comportarsi in modo più autocratico. Nell’estate 1347, durante le celebrazioni di San Giovanni, Cola si auto-proclamò Cavaliere in Laterano, ricevendo l’ordine della cavalleria tra fastosi festeggiamenti . La cerimonia sfarzosa e l’ostentazione di titoli cominciarono a suscitare mormorii e resistenze anche tra i suoi seguaci : il populista che prometteva austerità ora amava i simboli del potere. Poco dopo, al culmine di un crescendo di sospetti, Cola fece arrestare alcuni Colonna e Orsini che pure lo avevano sostenuto, minacciando perfino di giustiziarli . Alla fine li risparmiò (convinto da consiglieri più prudenti), ma quei nobili fuggirono immediatamente da Roma, capendo che l’aria era cambiata . I Colonna asserragliati nella loro roccaforte di Marino ripresero le armi e iniziarono a compiere razzie nei dintorni di Roma , sfidando apertamente il governo del tribuno.

 

Cola reagì con la forza: marciò contro Marino devastando le terre dei Colonna, poi ingaggiò battaglia con le milizie baronali il 20 novembre 1347 presso Porta San Lorenzo, sconfiggendole nettamente . Fu però una vittoria di Pirro. Ormai Cola aveva perso l’appoggio di molti: nel giro di pochi mesi la sua popolarità si era incrinata. Gli stessi popolani cominciavano a mal sopportare i suoi modi. Si dice che il tribuno fosse diventato sempre più diffidente e ossessionato: “si convertì in tiranno, si abbandonò al lusso e alla gola” scrive l’Anonimo, aggiungendo che Cola spesso non convocava più il parlamento per paura del giudizio del popolo . In effetti Cola, che in gioventù era magro e affascinante, in quei mesi parve trasformarsi: ingrassò a dismisura, dava banchetti sontuosi mentre la città si impoveriva, e si circondò di una guardia personale per timore di attentati. Il suo principale alleato istituzionale, il legato pontificio (che fungeva da “secondo tribuno”), lo abbandonò giudicandolo inaffidabile . I nobili rialzarono la testa e ripresero i loro intrighi; il popolo, disilluso dal comportamento del tribuno, non rispondeva più con la prontezza di prima alle chiamate alle armi . Papa Clemente VI, informato degli eccessi di Cola, cambiò atteggiamento: da benevolo che era in principio, passò a considerare Cola un pericolo pubblico. Nell’agosto 1347 – approfittando anche del fatto che l’ondata rivoluzionaria sembrava esaurirsi – il Papa emanò una bolla che scomunicava Cola di Rienzo, definendolo criminale, pagano, eretico . Ormai il tribuno era isolato.

 

A dicembre la tensione esplose: l’8 dicembre 1347 una nuova rivolta scoppiò a Roma, fomentata dai nemici di Cola. Di fronte all’ostilità aperta, Cola di Rienzo scelse di rinunciare al potere prima che la situazione degenerasse oltre. Il 15 dicembre 1347 abdicò formalmente, lasciando il Campidoglio e rifugiandosi presso Castel Sant’Angelo sotto protezione pontificia . Di lì, poco dopo, riuscì a fuggire nottetempo travestito da frate . Roma ripiombava nel caos, ma almeno per il momento Cola preferì salvare la pelle e sparire.

 

 

In esilio: l’erranza tra eremiti, imperatori e papi (1348-1353)

 

 

Dopo la caduta, Cola di Rienzo visse alcuni anni da fuggiasco e pellegrino, in uno scenario quasi da romanzo. Abbandonata Roma, si rifugiò inizialmente nei luoghi remoti dell’Appennino abruzzese: trovò riparo tra gli eremiti sulla Maiella, in mezzo a frati e asceti, dove rimase nascosto per circa due anni . Questo periodo nei monti dell’Abruzzo alimentò la sua già fervida spiritualità: pare che Cola abbia cominciato a considerarsi investito da una missione provvidenziale, elaborando visioni mistiche e profezie.

 

Nel 1350 decise di lasciare l’eremitaggio e tentare la sorte presso un altro potente: si recò in incognito in Boemia, alla corte del re (e futuro imperatore) Carlo IV di Lussemburgo . Qui Cola – forse sperando che Carlo, uomo colto e nipote di Enrico VII, fosse sensibile al fascino di Roma – cercò di ottenere appoggio per tornare in Italia. Presentatosi come un illuminato riformatore, gli sottopose le sue profezie apocalittiche e visioni che prevedevano un grande ruolo per l’imperatore nella redenzione di Roma. Carlo IV tuttavia era assai pragmatico: più che un prezioso alleato, vedeva in Cola un personaggio scomodo e potenzialmente destabilizzante. Così, invece di aiutarlo, il re boemo fece arrestare Cola e lo consegnò all’Arcivescovo di Praga . Questi a sua volta lo inviò come prigioniero al Papa ad Avignone nel luglio 1352 . Ironia della sorte: cinque anni dopo aver osato sfidare i baroni e il Papa, Cola tornava ad Avignone non più da ambasciatore osannato, ma in catene, accusato di eresia e sedizione.

 

Nel frattempo era cambiato il pontificato: morto Clemente VI nel 1352, gli succedette Innocenzo VI. Il nuovo papa, pur francese, era determinato a ricondurre all’ordine i territori italiani della Chiesa. Egli comprese che Cola, opportunamente rieducato, poteva tornare utile come strumento per pacificare Roma e restaurare l’autorità pontificia. Dopo alcuni mesi di detenzione blanda, Cola di Rienzo fu sottoposto a giudizio dall’Inquisizione: si esaminò la sua ortodossia religiosa e politica. Grazie anche all’opera di mediazione di influenti figure – pare intervennero in suo favore l’imperatore Carlo IV stesso (ora più conciliante) e Francesco Petrarca, poeta e suo antico sostenitore, oltre ad alcuni cardinali amici – Cola venne assolto dall’accusa di eresia nel 1353 con un atto di abiura. Il Papa decise di concedergli il perdono e di reintegrarlo nella società, sebbene con la dovuta cautela. Non lo rimandò subito libero a Roma da solo, ma lo affidò al cardinale Egidio Albornoz, esperto legato pontificio, impegnato proprio in quei mesi a riconquistare le città ribelli dello Stato della Chiesa .

 

Nell’autunno 1353, dunque, Cola di Rienzo lasciò Avignone al seguito del cardinal Albornoz, “purgato, benedetto e assolto” dal Papa . La sua destinazione finale era di nuovo Roma: incredibilmente, il tribuno caduto sarebbe tornato nella città che lo aveva visto trionfare e poi fuggire. Questa volta, però, non come rivoluzionario indipendente, ma come uomo del Papa, con il titolo di Senatore di Roma (ufficialmente conferitogli da Innocenzo VI) . L’idea era che Cola, forte del suo carisma sul popolo, aiutasse il cardinale Albornoz a ristabilire l’ordine a Roma e riaffermare la sovranità papale, che in quegli anni era ancora contestata da varie fazioni.

 

 

Ritorno a Roma e morte tragica (1354)

 

 

Nell’agosto del 1354 Cola di Rienzo fece il suo ingresso trionfale a Roma per la seconda volta. Durante il viaggio di ritorno lungo la penisola aveva suscitato curiosità e ammirazione: molti non credevano alle voci che fosse sopravvissuto e ancora in grado di tornare al potere . Dovunque passasse, la gente accorreva a vedere l’ex tribuno scampato a tante avventure, e a parole molti gli dichiaravano sostegno. Tuttavia, dietro l’entusiasmo di facciata, mancavano i mezzi concreti: per viaggiare con un seguito armato adeguato, Cola aveva bisogno di finanziamenti e soldati. Ad Perugia, il cardinale Albornoz pensò bene di risparmiare: nominò Cola ufficialmente Senatore di Roma (così investendolo dell’autorità formale) ma non gli diede un soldo . Cola dovette arrangiarsi: riuscì a strappare un finanziamento a un nobile perugino, Arimbaldo de’ Narba, che fu convinto (illusoriamente) di poter diventare con Cola signore di Roma – “lo fantastico piace allo fantastico” chiosa ironico l’Anonimo . Con quel denaro Cola arruolò qualche centinaio di mercenari tedeschi e fanti perugini e proseguì verso la capitale.

 

L’1 agosto 1354 (data forse scelta non a caso, lo stesso giorno del conclave di sette anni prima) Cola arrivò a Romaattraverso Porta Castello. Il popolo romano, colpito dalla sua incredibile vicenda umana, gli andò incontro con calorosa cordialità . Fu accompagnato in festa dal quartiere di Castel Sant’Angelo fin su al Campidoglio. Sulle scale del colle, Cola pronunciò un discorso appassionato: la sua abilità oratoria era intatta e seppe nuovamente infiammare gli astanti . Sembrava l’inizio di una nuova fase gloriosa. Eppure, già quel giorno emerse un dettaglio rivelatore: dopo le cerimonie di benvenuto, nessuno si preoccupò di offrirgli nemmeno un semplice pasto . Un piccolo gesto mancato che preannunciava scarsa considerazione concreta: il popolo faceva festa, ma forse non nutriva sincera fiducia in lui, oppure – più semplicemente – Roma era ormai stremata e diffidente.

 

Nei giorni e settimane seguenti, la situazione degenerò rapidamente. Coloro che avevano vissuto l’epopea del 1347 notarono subito che Cola era cambiato: l’uomo che sedeva ora sul seggio senatoriale era “un grasso ubriacone incline a straparlare”, scrive l’Anonimo, aggiungendo che Cola sembrava animato da sete di vendetta verso chi l’aveva cacciato . In effetti il nuovo Senatore iniziò presto a inimicarsi tutti: anzitutto tradì gli stessi perugini che lo avevano aiutato, facendoli condannare a morte con l’accusa di tradimento al solo scopo di confiscarne i beni e rimpinguare le casse vuote . Era a corto di denaro e doveva a tutti i costi pagare i propri soldati mercenari; per questo impose nuove gabelle e tassazioni che pesarono sulla popolazione, rendendolo presto inviso al popolo . Il sogno del liberatore si era tramutato nell’incubo di un tirannello famelico di soldi.

 

La tensione esplose nell’ottobre 1354. Un capitano di ventura al servizio di Cola, che egli aveva destituito, approfittò del malcontento generale per sollevare la popolazione contro di lui . L’8 ottobre 1354 una folla inferocita marciò sul Campidoglio capeggiata da alcuni scontenti. Cola di Rienzo si asserragliò nel palazzo senatorio, abbandonato dalla maggior parte dei suoi fedeli (i mercenari tedeschi stessi si defilarono). Tentò un’ultima, disperata arringa dal balconeper placare i romani inferociti . Ma stavolta le sue parole caddero nel vuoto: in risposta, la folla diede fuoco alle porte del palazzo . A quel punto Cola, preso dal panico, cercò di salvarsi fuggendo in incognito: si tolse le vesti senatorie e, in modo rocambolesco, si travestì da popolano mendicante, coprendosi con stracci e perfino alterando la propria voce per non farsi riconoscere . In un primo momento riuscì a mescolarsi alla gente per strada. Tuttavia commise un errore fatale: dimenticò di sfilarsi alcuni preziosi braccialetti che portava ai polsi. Quegli ornamenti, decorati a smalto – “non pareva opera de riballo”, cioè non certo oggetti da pezzente – attirarono l’attenzione di qualcuno . In un attimo Cola fu smascherato. La folla, che poc’anzi arretrava intimorita (nessuno osava essere il primo a colpire il tribuno caduto), appena lo riconobbe esplose in violenza. Un popolano si fece avanti e, sguainata la spada, lo colpì dritto al ventre . Fu il segnale: altri si avventarono con coltelli e spade sul corpo. In pochi attimi Cola di Rienzo spirò, trafitto da innumerevoli colpi, senza che nessuno dei suoi trovasse il coraggio di difenderlo .

 

La furia della plebe si accanì sul cadavere. Il corpo di Cola venne legato per i piedi e trascinato per le strade di Roma come trofeo. Fu appeso per scherno a una trave presso San Marcello in via Lata, proprio di fronte alle case dei Colonna, i suoi antichi nemici, e lì rimase esposto per due giorni e una notte . Nessuno osò toglierlo, nemmeno per pietà. Il terzo giorno, per timore di epidemie e per chiudere la macabra vicenda, il corpo ormai decomposto venne calato e portato fuori città, presso la zona di Ripetta (dove sorgeva il Mausoleo di Augusto, allora controllato dai Colonna) . Lì fu dato alle fiamme: si racconta che arse con facilità perché “era grasso: per la molta grassezza da sé ardeva volentieri” commenta con crudele sarcasmo l’Anonimo Romano . Le ceneri di Cola di Rienzo furono infine gettate nel Tevere o disperse, cancellando ogni traccia fisica di colui che aveva sognato di passare alla storia come il novello Bruto o il nuovo Cesare.

 

Così si concludeva, in modo inglorioso, la parabola dell’ultimo tribuno. Eppure, il suo esperimento lasciò un’eco. La vicenda di Cola fu così famosa che ispirò imitatori: pochi anni dopo, tra il 1357 e il 1359, a Pavia il frate Jacopo Bussolari cacciò i signori locali (i Beccaria) e instaurò un governo popolare molto simile a quello di Cola . Anche quell’esperienza ebbe vita breve: Pavia fu assediata dai potenti Visconti e dovette arrendersi . Ma l’idea che il popolo potesse rovesciare i tiranni, in nome di un’età nuova ispirata alle virtù antiche, ormai serpeggiava nell’immaginario collettivo.

 

 

Le fonti sulla vita di Cola di Rienzo

 

 

La vita di Cola di Rienzo ci è giunta attraverso diverse fonti storiche, alcune delle quali davvero affascinanti. La principale è senza dubbio la Cronica dell’Anonimo Romano, un racconto coevo scritto da un autore sconosciuto (forse un certo Giovanni di Bartolo, ma nulla di certo) che fu testimone oculare di molti eventi. Questa cronaca, redatta in un colorito dialetto romanesco trecentesco, narra con dovizia di dettagli le imprese di Cola e l’atmosfera di Roma in quegli anni, manifestando spesso ammirazione per il tribuno. A lungo considerata un testo rozzo (per via della lingua popolare lontana dal fiorentino “aulico”), la Cronica è stata oggi rivalutata come un vero capolavoro della letteratura medievale italiana . Gli studiosi moderni ne tengono in gran conto la testimonianza, che offre un punto di vista “dal basso” sulla vicenda di Cola . Molti degli episodi citati in questo racconto derivano proprio dalla Cronica dell’Anonimo, che ci tramanda discorsi, aneddoti e sentimenti del popolo romano di allora.

 

Un’altra fonte importantissima sono le lettere di Francesco Petrarca. Il grande poeta e umanista conobbe personalmente Cola di Rienzo: i due si incontrarono ad Avignone negli anni in cui Cola era lì in missione, e condividevano l’amore per l’antica Roma e il dolore per la corruzione presente . Petrarca inizialmente nutrì grandi speranze nel tribuno, tanto da scrivergli epistole entusiaste salutandolo come il liberatore di Roma e dell’Italia. Quando Cola prese il potere nel 1347, Petrarca gli indirizzò una famosa lettera in cui lo incitava a perseverare nella giustizia e restaurare i costumi degli antichi romani. In Petrarca l’azione di Cola accendeva il sogno umanistico di un ritorno all’età dell’oro. Tuttavia, dopo la caduta di Cola, il poeta ne rimase amareggiato. Ciò nonostante, continuò ad interessarsi al destino di Cola: intervenne presso il Papa per perorare la sua causa durante il processo e, pur da lontano, seguì con apprensione gli eventi del 1354. Le lettere di Petrarca offrono dunque un prezioso sguardo “ideologico” sulla vicenda, mostrandoci come Cola fosse visto da uno dei più grandi intellettuali del suo tempo.

 

Oltre alla Cronica e a Petrarca, abbiamo poi le fonti ufficiali: bolle pontificie (come la scomunica di Clemente VI) e cronache di altre città italiane (ad esempio Giovanni Villani a Firenze menziona Cola). Nel complesso, la documentazione su Cola di Rienzo è ricca, e proprio per questo la sua figura ha suscitato interpretazioni diverse a seconda delle epoche, come vedremo.

 

Mito e memoria di Cola di Rienzo nei secoli

Cola di Rienzo immaginato dall’artista romantico Federico Faruffini (dipinto del 1855). Il tribuno è raffigurato in vesti medievali, mentre contempla con sguardo ispirato le rovine di Roma e stringe il pugno con ardore patriottico, simbolo della rabbia per la decadenza presente e della volontà di riscossa nazionale.

 

Ogni epoca ha “letto” la figura di Cola di Rienzo a modo proprio, filtrandola attraverso le proprie aspirazioni. Nel Medioevo e fino all’inizio del Rinascimento, Cola fu per lo più ricordato nei dintorni di Roma come un curioso episodio di rivolta cittadina: i nobili e il clero lo dipingevano come un folle ribelle (non a caso Dante, qualche anno dopo, nell’Inferno cita Roma come “vedova e sola” riferendosi alla mancanza del papa, senza menzionare affatto Cola). Ma tra il popolo e in certa cultura comunale, l’eco delle sue riforme rimase viva: a Pavia, come detto, si tentò di imitarlo; e a Roma stessa, nel Quattrocento, il mito repubblicano riaffiorò con Stefano Porcari (un umanista che nel 1453 organizzò un fallito moto repubblicano ispirato all’“ultimo tribuno”).

 

Fu però nell’Ottocento, in piena era romantica e risorgimentale, che Cola di Rienzo conobbe una vera riscoperta e celebrazione. Gli ideali patriottici italiani videro in lui un precursore: un uomo del popolo che aveva sognato di unire l’Italia e scacciare tiranni stranieri sull’esempio dell’antica Roma . I romantici lo esaltarono come eroe libertario e proto-nazionalista. Artisti e letterati s’ispirarono alla sua storia: lo scrittore inglese Bulwer-Lytton nel 1835 pubblicò il fortunato romanzo “Rienzi, l’ultimo dei tribuni”, che ebbe vasta eco in Europa. Il compositore tedesco Richard Wagnernel 1842 debuttò con l’opera lirica “Rienzi”, in cui Cola è protagonista tragico di una grandiosa vicenda corale. Lord Byron e Gabriele d’Annunzio fecero riferimenti a Cola nelle loro opere . I pittori lo raffigurarono più volte: nel quadro di Faruffini citato sopra lo vediamo ritratto come un giovane idealista solitario sul Palatino, in altre tele (ad esempio di William Holman Hunt) è rappresentato nel momento emotivo in cui giura vendetta sul corpo del fratello ucciso dai nobili – episodio leggendario che divenne parte del suo mito. La Roma capitale appena proclamata (dopo il 1870) gli rese omaggio intitolandogli una delle strade principali (l’elegante Via Cola di Rienzo nel rione Prati, aperta negli anni 1880) . In quel periodo, Cola di Rienzo veniva narrato nei libri come un martire della libertà italiana ante litteram, accostato agli eroi del Risorgimento. Non a caso, Napoleone, Bolivar, Garibaldi furono paragonati a lui dai romantici, che vi vedevano una prefigurazione dei loro ideali .

 

Nel Novecento, la fortuna di Cola di Rienzo conobbe alti e bassi. In epoca fascista, curiosamente, non fu esaltato più di tanto dal regime – forse perché la Chiesa non lo amava e il regime cercava l’accordo col papato, oppure perché la sua parabola finita male non era ritenuta edificante. Tuttavia, il suo essere un tribuno populista che parlava alla folla ebbe qualche eco propagandistica. Nel dopoguerra e oltre, la figura di Cola passò un po’ in secondo piano, considerata marginale rispetto ai grandi processi storici. Gli storici accademici si dedicarono a studi specialistici: nel 1931 uscì un’imponente biografia scientifica ad opera di Paolo Pieri (o Piur) , ma per decenni non ci furono nuove sintesi autorevoli. Solo negli anni 2000 la storiografia ha rinnovato l’interesse, con studi più aggiornati come quelli di Tommaso di Carpegna Falconieri (2002) che collocano Cola in una luce più realistica, grazie anche a nuove ricerche sul contesto economico-sociale romano .

 

Oggi gli studiosi tendono a ridimensionare il mito risorgimentale di Cola di Rienzo, offrendone un ritratto più sfaccettato. Da un lato resta l’intuizione brillante di un uomo che si fece interprete della speranza popolare di giustizia in un periodo di crisi, e che seppe usare simboli e comunicazione politica con straordinaria modernità. Dall’altro si riconoscono i limiti e le contraddizioni del personaggio: Cola non fu un santo né un eroe senza macchia, ma un politico ambizioso che presto cedette al gusto del potere. Come scrive lo storico Alessandro Barbero, la sua parabola è quella di un “figlio d’oste” di talento che incanta le folle con grandi promesse di porre fine alla crisi e restaurare glorie imperiali, ma che una volta al comando accumula titoli e onori per sé, favori per i parenti, elimina nemici e alleati scomodi senza scrupoli, e si smarrisce in un labirinto di menzogne al punto da credere alle proprie fantasie; infine, catturato mentre fugge travestito, muore di mala morte finendo appeso per i piedi . Una descrizione impietosa che inevitabilmente evoca, agli occhi dei contemporanei, figure ben diverse dall’eroico Garibaldi – viene semmai in mente il triste finale di qualche dittatore populista del XX secolo, appeso per i piedi anch’egli. Ecco dunque Cola di Rienzo: un personaggio storico complesso, in bilico tra sogno e realpolitik, tra gloria effimera e tragico declino. La sua vicenda, seppur lontana nel tempo, continua ad affascinare per i tanti spunti che offre sul rapporto tra popolo e potere, sul richiamo dell’antico in epoca di crisi e sull’eterna tentazione del salvatore della patria.

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