
Il Programma San Marco: la grande avventura spaziale italiana
Pubblicato il 24 May 2025
Il contesto storico: l’Italia negli anni ‘50 e ‘60 e la corsa allo spazio
Negli anni Cinquanta e Sessanta l’Italia vive un periodo di trasformazione profonda. Uscita devastata dalla Seconda Guerra Mondiale, la nazione conosce il boom economico di fine anni ’50 e primi anni ’60, accompagnato da una rinnovata fiducia nelle proprie capacità . Sullo sfondo internazionale domina la Guerra Fredda: Stati Uniti e Unione Sovietica si fronteggiano su ogni terreno, inclusa la nuova frontiera tecnologica della corsa allo spazio . In questo clima, anche altri Paesi aspirano a ritagliarsi un ruolo nel settore spaziale. L’Italia, alleata degli Stati Uniti e forte di una tradizione scientifica notevole (basti pensare a Enrico Fermi ed Emilio Segré, emigrati in America durante il conflitto), coltiva il desiderio di autonomia tecnologica e di non restare ai margini di questa nuova era.
Già a metà degli anni ’50, scienziati come Edoardo Amaldi e figure militari-tecniche come Luigi Broglio iniziano a gettare le basi per un programma spaziale italiano. Nel 1956 viene istituito il Centro Ricerche Aerospaziali (CRA) dell’Università di Roma, coinvolgendo anche l’Aeronautica Militare . Poco dopo, nel 1958, viene lanciata dal poligono di Salto di Quirra in Sardegna una prima campagna di ricerca sull’alta atmosfera usando piccoli razzi americani Nike-Cajun, a testimonianza della precoce collaborazione italo-americana nel settore. Nel 1959 il Consiglio Nazionale delle Ricerche crea la Commissione per le Ricerche Spaziali (CRS) guidata da Amaldi e Broglio, riunendo le migliori competenze italiane in fisica, aeronautica e ingegneria .
In questo contesto, matura l’idea ambiziosa: fare dell’Italia uno dei primi paesi al mondo capaci di progettare, costruire e lanciare autonomamente un satellite artificiale. Il governo italiano, presieduto da Amintore Fanfani, approva nel 1961 il primo piano spaziale triennale, stanziando 4,5 miliardi di lire per avviare il progetto . Il Programma San Marco, così battezzato, diventa la punta di diamante di questo sforzo, con l’obiettivo dichiarato di portare in orbita un satellite interamente con mezzi italiani . È una scelta strategica per affermare l’autonomia tecnologica nazionale in un campo dominato dalle superpotenze.
Luigi Broglio: il padre dell’astronautica italiana
A guidare questa impresa viene chiamato Luigi Broglio, figura centrale e carismatica considerata il pioniere delle attività spaziali in Italia . Broglio, nato a Mestre nel 1911, è un ingegnere aeronautico e ufficiale dell’Aeronautica Militare. Allievo del generale Gaetano Arturo Crocco – un visionario precursore degli studi sul volo spaziale – Broglio eredita da lui la passione per l’astronautica e l’approccio multidisciplinare alle sfide tecnologiche . Dopo la guerra, Broglio diviene professore alla Scuola di Ingegneria Aeronautica di Roma e Generale Ispettore del Genio Aeronautico, ponendosi al crocevia fra mondo accademico e mondo militare . Questa duplice posizione gli consente di muovere agilmente risorse e competenze per il neonato programma spaziale.
Broglio crede fermamente che l’Italia debba avere accesso indipendente allo spazio. Già nel febbraio 1961 propone al primo ministro Fanfani la creazione di un programma satellitare nazionale con un proprio sito di lancio . Pragmaticamente, Broglio accetta l’idea di usare vettori stranieri se necessario pur di raggiungere il traguardo in tempi brevi . Il suo entusiasmo e la sua rete di contatti internazionali – da Theodore von Kármán negli USA allo stesso Hugh Dryden, direttore scientifico della NASA – gli permettono di ottenere rapidamente supporto. Insieme a Edoardo Amaldi, Broglio negozia una partnership con la NASA, convinto che la collaborazione con gli americani possa accelerare il salto tecnologico dell’Italia.
Il 31 maggio 1962 viene firmato un Memorandum d’Intesa tra la CRS italiana (rappresentata da Broglio) e la NASA (rappresentata da Dryden) . L’accordo stabilisce una chiara divisione dei compiti: gli Stati Uniti avrebbero fornito i razzi vettori Scout e l’addestramento del personale, mentre l’Italia avrebbe sviluppato i satelliti scientifici e messo a disposizione una base di lancio equatoriale . Broglio, grazie anche al sostegno del manager dell’ENI Enrico Mattei, individua la soluzione ideale per la base di lancio: una piattaforma petrolifera dismessa dell’ENI da allestire al largo delle coste del Kenya, in prossimità dell’equatore . L’idea è originale e audace, motivata da ragioni scientifiche: lanciare vicino all’equatore consente di sfruttare la maggiore velocità di rotazione terrestre come una fionda, ottenendo un incremento gratuito di velocità e quindi un risparmio di carburante per il razzo
Dall’idea al progetto: il razzo Scout, la NASA e la piattaforma equatoriale in Kenya
La piattaforma di lancio “San Marco” al largo di Malindi, in Kenya – la prima base di lancio equatoriale oceanica al mondo (anni ’60).
Il Progetto San Marco prende forma concreta nei primi anni ’60. Broglio e il suo team definiscono un piano in tre fasi : (1) realizzazione di piccoli satelliti scientifici di interesse sia italiano che americano, (2) addestramento di tecnici italiani alle procedure di lancio e controllo sotto la guida della NASA, e (3) costruzione di una piattaforma di lancio oceanica mobile . Per la realizzazione dei satelliti, l’Italia decide di utilizzare la tecnologia disponibile più affidabile: il vettore americano Scout, un razzo a quattro stadi a propellente solido. Lo Scout è relativamente leggero e semplice, ideale per mettere in orbita satelliti di qualche decina o centinaio di chili. Questa scelta pragmatica evita all’Italia di dover sviluppare da zero un lanciatore proprio, impresa che avrebbe richiesto anni di ricerca. In cambio, l’Italia condivide con la NASA i dati scientifici raccolti dai satelliti, ottenendo in loco il supporto logistico e formativo statunitense .
La parte più innovativa del progetto è senza dubbio la piattaforma di lancio equatoriale in mare aperto. Vengono riadattate due piattaforme petrolifere: una, battezzata San Marco, fungerà da rampa di lancio vera e propria; l’altra, chiamata Santa Rita, fungerà da centro di controllo e alloggio per il personale, posta a breve distanza . Nel 1963 iniziano in Italia i lavori di modifica delle piattaforme, mentre a Wallops Island (Virginia) tecnici e ingegneri italiani partecipano ai primi test suborbitali. Il 21 aprile 1963 infatti un prototipo del satellite San Marco viene lanciato in un volo suborbitale di prova dalla base NASA: il primo test fallisce, ma quelli successivi hanno successo e permettono di verificare la strumentazione di bordo .
Nel frattempo, la costruzione del poligono mobile va avanti. Rimorchiata dall’Italia fino al Kenya, la piattaforma San Marco viene ancorata nel 1966 al largo di Malindi, su un fondale di circa 10 metri, praticamente sulla linea dell’equatore. Si tratta di un traguardo pionieristico: è la prima base di lancio al mondo galleggiante in mare aperto per l’immissione in orbita di satelliti . La natura “instabile” della piattaforma – soggetta al moto ondoso – richiede accorgimenti inediti per le operazioni di lancio, ma offre anche un prezioso vantaggio scientifico. L’obiettivo dei satelliti San Marco, infatti, è studiare la alta atmosfera terrestre (in particolare la ionosfera) e capire come la densità dell’aria rarefatta influenzi un satellite in orbita . L’equatore è il luogo ideale per queste ricerche, poiché l’atmosfera equatoriale presenta caratteristiche peculiari e, fino ad allora, era stata studiata solo raramente .
Tra gli strumenti a bordo dei satelliti spicca la cosiddetta “bilancia Broglio”, un dispositivo inerziale ideato dallo stesso Luigi Broglio per misurare con precisione la densità atmosferica alle altitudini orbitali . Il congegno è composto da due sfere concentriche: oscillazioni differenziali tra la sfera interna e quella esterna (sottoposta al drag atmosferico) permettono di dedurre la densità dell’aria circostante con elevata accuratezza . Questa soluzione ingegnosa pone l’Italia all’avanguardia nella strumentazione spaziale dell’epoca.
Alla fine del 1964 tutto è pronto per la fase operativa finale: lanciare il primo satellite italiano. La piattaforma oceanica, però, non è ancora del tutto collaudata e per il volo inaugurale si decide di utilizzare la base NASA di Wallops Island . Sarà l’ultima volta – e l’unica – in cui un satellite San Marco partirà dagli Stati Uniti; da lì in avanti l’Italia farà da sé, lanciando le proprie creazioni dal proprio avamposto equatoriale.
I lanci dei satelliti San Marco: San Marco 1, 2, 3 (e “B”)
Il 15 dicembre 1964 l’Italia entra ufficialmente nell’era spaziale. Alle 20:24 UTC di quella sera, un razzo Scout X-4 decolla da Wallops Island portando in orbita San Marco 1, il primo satellite italiano. A guidare le operazioni sul posto c’è un gruppo di tecnici italiani, formati nei mesi precedenti dalla NASA, sotto la supervisione dell’ingegnere Michele Caporali e di Carlo Buongiorno. Il lancio è un successo: il piccolo satellite sferico (115 kg per circa 60 cm di diametro) viene inserito in un’orbita ellittica equatoriale con apogeo intorno agli 850 km e perigeo di circa 200 km . San Marco 1 inizia a trasmettere dati preziosi sulla densità degli strati alti dell’atmosfera, una zona poco conosciuta fino ad allora. I risultati scientifici confermano le previsioni di Broglio: la bilancia inerziale funziona egregiamente e registra come la densità atmosferica vari al variare dell’altitudine, fornendo informazioni utili per il calcolo delle traiettorie orbitali. Ma soprattutto, quel lancio segna un trionfo simbolico: l’Italia ha conquistato “la sua finestra nello spazio”, diventando il terzo Paese al mondo (il primo in Europa), dopo Unione Sovietica e Stati Uniti, ad aver progettato, costruito, lanciato e controllato un satellite con le proprie forze. Era dal tempo di Gagarin e dello Sputnik che nessun altro al di fuori delle due superpotenze era riuscito a mettere qualcosa in orbita; ora c’è anche l’Italia, a sorpresa, sulla mappa globale dello spazio.
Sull’onda di questo successo, il team di Broglio procede a completare e perfezionare la base di lancio mobile in Kenya. Dopo alcuni test e ritardi dovuti al meteo equatoriale, arriva il momento di una nuova impresa: il primo lancio orbitale interamente condotto dall’Italia sul suo territorio (anche se extraterritoriale). Il 26 aprile 1967, alle ore 11:06 (ora di Roma), dalla piattaforma al largo di Malindi parte il razzo Scout con a bordo San Marco 2 – noto anche come San Marco B secondo la denominazione interna del progetto . È un evento storico: è la prima volta al mondo che un satellite artificiale viene lanciato da una base galleggiante in mare aperto . Sulla piattaforma Santa Rita il team italiano – circa 150 tra tecnici e ingegneri guidati dallo stesso Broglio – segue col fiato sospeso le procedure di countdown durate tutta la notte . Quando il comando di lancio viene inviato, la piattaforma San Marco viene avvolta da una nuvola di fumo e il razzo bianco, con impressi i nomi “Italia – USA” e la bandiera tricolore sul fianco, s’innalza nel cielo equatoriale . Il decollo è perfetto: lo Scout accelera lasciando una scia luminosa sopra l’oceano e, uno dopo l’altro, i suoi quattro stadi completano la funzione, portando il satellite in orbita. L’operazione “è riuscita perfettamente” e l’orbita risultante è praticamente quella prevista: apogeo ~806 km, perigeo ~216 km, quasi coincidenti con i valori pianificati . Tutti gli strumenti di bordo funzionano correttamente e la qualità dei dati trasmessi a terra è giudicata ottima dai tecnici . L’Italia ha così dimostrato non solo di saper costruire satelliti, ma anche di saperli lanciare in modo autonomo dalla propria base, affermandosi come pioniera in un’impresa mai tentata prima da altri paesi. San Marco 2/B continua per diversi mesi a inviare informazioni sull’alta atmosfera equatoriale, consentendo di mappare con precisione densità e composizione degli strati ionosferici tropicali.
Dopo il 1967 il programma rallenta temporaneamente, complici alcune difficoltà di finanziamento e riorganizzazioni istituzionali. Ma la collaborazione con NASA prosegue, anzi si rafforza: proprio dalla piattaforma San Marco, nel dicembre 1970, verrà lanciato Uhuru (SAS-1), il primo satellite al mondo dedicato all’astronomia a raggi X, frutto di un progetto NASA con partecipazione italiana. È un attestato di fiducia verso le capacità operative del team di Broglio e verso l’unicità del poligono equatoriale italiano .
Bisogna attendere qualche anno per il prossimo satellite della serie San Marco. Il 24 aprile 1971 decolla dal Kenya San Marco 3 (internamente chiamato San Marco C), nuovamente a bordo di un razzo Scout fornito dagli Stati Uniti . Più pesante dei predecessori (circa 160 kg) e con strumenti scientifici aggiornati, San Marco 3 continua l’esplorazione dell’alta atmosfera, focalizzandosi in particolare sulla composizione dei gas rarefatti ad alta quota. In collaborazione con centri di ricerca statunitensi, il satellite misura la densità e la temperatura dell’azoto nelle fasce fra 200 e 300 km di altezza, contribuendo a comprendere meglio la struttura della termosfera . Il lancio è nuovamente un successo e i dati raccolti arricchiscono il quadro iniziato dai primi due satelliti, fornendo ai ricercatori informazioni utili anche per la progettazione di veicoli spaziali futuri (che devono tenere conto della resistenza residua dell’atmosfera a quelle altitudini).
Il Progetto San Marco, nelle sue fasi iniziali, annovera dunque tre missioni riuscite tra 1964 e 1971, che fanno dell’Italia una potenza spaziale emergente. In quegli stessi anni solo pochi altri Paesi lanciano satelliti: la Francia invierà in orbita il suo primo satellite nel 1965 (con un proprio razzo), il Giappone nel 1970. L’Italia, con il Programma San Marco, si trova ad aver giocato d’anticipo, almeno sul piano scientifico, rispetto a molte nazioni ben più grandi. Vale la pena ricordare che secondo alcuni criteri l’Italia fu addirittura la prima nazione non superpotenza a mettere in orbita un proprio satellite (grazie a San Marco 1 nel 1964), sebbene utilizzando un lanciatore fornito da un altro paese. I francesi rivendicano per sé questo primato poiché Asterix, il loro primo satellite, fu lanciato con un razzo interamente francese nel 1965 . Al di là di queste distinzioni, resta il fatto che nessun altro Paese in Europa occidentale aveva un programma organico come San Marco all’inizio degli anni ’60.
Nei primi anni ’70, dopo San Marco 3, il programma attraversa una fase difficile: l’onda lunga dell’entusiasmo iniziale si smorza, e in Italia le priorità politiche ed economiche si spostano. Ciononostante, Broglio non demorde. Nel febbraio 1974 viene lanciato San Marco 4, ulteriore satellite per studi ionosferici, e nel frattempo la base San Marco viene messa a disposizione per altri lanci internazionali, rafforzando la reputazione italiana. L’ultimo capitolo operativo del progetto arriva più di un decennio dopo: il 25 marzo 1988 (proprio in coincidenza con la nascita dell’Agenzia Spaziale Italiana, ASI) l’Italia lancia San Marco D/L (San Marco 5), quinto e ultimo satellite della serie . È un ritorno simbolico, a ventiquattro anni dal primo storico lancio, a suggellare la chiusura di un’epoca pionieristica. In totale, tra il 1964 e il 1988 l’Italia ha messo in orbita cinque satelliti San Marco, tutti con razzi Scout americani: il primo dagli Stati Uniti e i successivi quattro dal proprio poligono equatoriale . Un bilancio di tutto rispetto, se si considera la complessità tecnica e organizzativa di un programma condotto in gran parte in autonomia.
L’importanza storica: un primato italiano nella corsa allo spazio
Il Programma San Marco rappresenta un capitolo straordinario nella storia della scienza e tecnologia italiana. In piena Guerra Fredda, mentre il mondo guardava alle imprese spaziali di USA e URSS, l’Italia riuscì quasi silenziosamente a inserirsi nel ristretto club delle nazioni spaziali. L’Italia è stata il terzo paese al mondo – e il primo in Europa – a progettare e mettere in orbita un satellite con proprie risorse . Questo primato, spesso poco noto al grande pubblico, testimonia la lungimiranza e il coraggio di una comunità di scienziati, militari e politici che negli anni ’60 seppe guardare oltre l’orizzonte. In ordine di tempo, l’Italia fu la quinta nazione a superare la “barriera” dell’atmosfera (dopo URSS, USA, Gran Bretagna e Canada), ma solo la terza a farlo in modo completamente autogestito, senza cioè appoggiarsi integralmente a infrastrutture altrui . Gran Bretagna e Canada infatti avevano lanciato satelliti in orbita prima del 1964, però affidandosi a razzi e basi americane. L’Italia con San Marco mostrò che anche un paese di medio livello poteva aspirare a progettualità spaziale autonoma, anticipando in un certo senso quella “democratizzazione” dell’accesso allo spazio che avrebbe visto negli anni successivi sempre più nazioni coinvolte.
Sul piano scientifico, i risultati del Programma San Marco furono di grande importanza. Gli esperimenti sui satelliti italiani permisero di approfondire la conoscenza della ionosfera equatoriale, delle sue irregolarità e dei suoi effetti sul moto dei satelliti. Tali conoscenze trovarono applicazione pratica, ad esempio, nel migliorare i modelli di rientro atmosferico e nel progettare satelliti più resistenti all’attrito residuo. Inoltre, l’Italia dimostrò precocemente l’efficacia di lanci da basse latitudini: una lezione non sfuggita a potenze come gli Stati Uniti, che in seguito potenziarono basi come Cape Canaveral (vicina al 28º parallelo) e collaborarono con l’Europa per installare una base di lancio proprio sull’equatore (Kourou in Guyana Francese). In un certo senso, San Marco fece da apripista anche concettuale, prefigurando soluzioni (come le piattaforme marine di lancio) che decenni dopo sarebbero tornate in auge in altri progetti internazionali.
Infine, va sottolineato l’impatto in termini di prestigio nazionale. Negli anni ’60 l’Italia era spesso percepita come una potenza industriale emergente ma non certo leader nella ricerca avanzata; il successo del progetto San Marco rovesciò questo stereotipo, mostrando al mondo – e agli italiani stessi – che il nostro Paese poteva primeggiare in uno dei campi più difficili e sofisticati. Le immagini di tecnici italiani al lavoro sotto il sole africano, o della bandiera tricolore dipinta sul razzo Scout, divennero emblemi di un’Italia moderna, capace di collaborare alla pari con gli americani e di raggiungere traguardi impensabili solo pochi anni prima. Non a caso, la stampa internazionale e la stessa NASA riconobbero il valore di questa impresa: una cartolina celebrativa dell’epoca certifica che l’Italia fu “il terzo paese al mondo a mandare un proprio satellite in orbita”, sottolineando la portata dell’evento .
Eredità culturale e tecnologica: l’influenza su ESA, industria e ingegneria spaziale italiana
L’eredità del Programma San Marco è ampia e duratura, sia sul piano tecnico-scientifico che su quello culturale. In primo luogo, l’esperienza accumulata dal team di Broglio gettò le basi per la nascita di una vera e propria industria spaziale italiana. Molti dei giovani ingegneri formatisi in quel progetto hanno poi occupato posizioni di rilievo nelle istituzioni e aziende del settore. Un caso emblematico è quello di Carlo Buongiorno, stretto collaboratore di Broglio sin dagli anni ’60: negli anni ’80 Buongiorno divenne il primo Direttore Generale dell’Agenzia Spaziale Italiana (ASI) e rappresentante italiano nella nascente Agenzia Spaziale Europea, che egli stesso contribuì a istituire . La scuola italiana di ingegneria aerospaziale, che aveva mosso i primi passi a Guidonia con Gaetano Crocco e poi con Broglio a Roma, grazie a San Marco acquistò prestigio internazionale e continuò a sfornare professionisti di altissimo livello.
In secondo luogo, il Programma San Marco aiutò l’Italia a ritagliarsi un ruolo di primo piano nella cooperazione spaziale europea. Già nel 1964, parallelamente ai lanci di San Marco 1, l’Italia fu tra i membri fondatori dell’ESRO (European Space Research Organization) e dell’ELDO (European Launcher Development Organization), organismi precursori dell’attuale ESA (Agenzia Spaziale Europea). Amaldi, che insieme a Broglio era stato tra i promotori del progetto San Marco, fu anche una figura chiave nel convincere gli europei a unire le forze per lo spazio. L’expertise maturata con San Marco tornò utile: ad esempio, tecnologie italiane e strumenti scientifici sviluppati in quell’ambito vennero poi impiegati su satelliti europei negli anni ’70, facilitando la transizione dell’Italia da programma nazionale a programma congiunto europeo. L’Italia dimostrò di poter dare un contributo sostanziale: non mera “spettatrice” ma partner affidabile in grado di fornire hardware, know-how e infrastrutture (celebre, in questo senso, è la base di Malindi che divenne un importante centro di telemetria e controllo usato anche da satelliti di altre agenzie).
Dal punto di vista industriale, l’effetto volano fu notevole. Alcune imprese italiane cominciarono allora ad affermarsi nel settore spaziale: la FIAT, attraverso la controllata Aeritalia, partecipò allo sviluppo di razzi europei; la Selenia (poi confluita in Thales Alenia Space) costruì satelliti per telecomunicazioni e per osservazione della Terra. Si può dire che San Marco inaugurò una tradizione: quella per cui l’Italia, pur non avendo le risorse di una superpotenza, sa ritagliarsi nicchie di eccellenza nello spazio. Negli anni successivi, l’Italia fu capofila di progetti innovativi come il satellite scientifico SIRIO (1977, per le telecomunicazioni sperimentali) e soprattutto fornì moduli vitali per la Stazione Spaziale Internazionale negli anni ’90-2000 (i moduli logistici MPLM costruiti a Torino). Tutto ciò è figlio di una visione pionieristica nata con Broglio: investire nella formazione, nella ricerca e nelle infrastrutture per avere un ritorno di lungo periodo.
Culturalmente, il Programma San Marco ha lasciato un segno indelebile. Esso rappresenta ancora oggi un motivo di orgoglio nazionale, spesso rievocato come esempio di “quando l’Italia ci credeva davvero”. Nel 2014, in occasione del 50º anniversario del lancio di San Marco 1, e ancora nel 2024 per il 60º, si sono tenute celebrazioni, conferenze e persino emissioni filateliche speciali in onore di quell’impresa . Nel 2021 è stata istituita la Giornata Nazionale dello Spazio il 16 dicembre (anniversario di San Marco 1) per diffondere la consapevolezza del contributo italiano all’esplorazione spaziale. Figure come Luigi Broglio – scomparso nel 2001 – vengono oggi ricordate come visionari e patrioti della scienza: a lui è intitolato il Centro Spaziale di Malindi (ribattezzato Centro Spaziale Luigi Broglio) e borse di studio per giovani ingegneri aerospaziali portano il suo nome.
In conclusione, la storia del Programma San Marco è quella di un sogno ambizioso divenuto realtà grazie a competenza, tenacia e un pizzico di audacia. In poco più di un decennio, l’Italia passò dal non avere alcuna presenza nello spazio a gestire un proprio poligono di lancio e a collaborare da pari a pari con la NASA. Quella stagione irripetibile ha aperto la strada a tutto ciò che è venuto dopo: l’Italia odierna, protagonista nelle missioni dell’ESA e nelle esplorazioni internazionali, deve molto a quella prima scintilla accesa da Broglio e dai suoi collaboratori. Come amava ricordare lo stesso Broglio in età avanzata, forse consapevole della portata storica di ciò che aveva fatto: “Tutto quello che ho fatto, l’ho sempre fatto pensando al prestigio del nostro Paese” . Il Programma San Marco resta uno dei capitoli più luminosi del prestigio italiano nel mondo.
Fonti utilizzate: Le informazioni e citazioni presenti nel testo provengono da articoli e documenti storici, tra cui l’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV) , il resoconto del Progetto San Marco pubblicato dall’Università Astronomica Italiana , voci enciclopediche Wikipedia in italiano e inglese , nonché l’archivio storico del quotidiano La Stampa . Queste fonti testimoniano l’importanza del progetto e forniscono dettagli di prima mano sui lanci e sui protagonisti di quell’avventura.
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