
L’Unità d’Italia e la grande ferita del Sud: storia di un prezzo dimenticato
Pubblicato il 13 May 2025
Un viaggiatore che oggi attraversa i vicoli silenziosi di un borgo abbandonato dell’entroterra meridionale potrebbe non immaginare le voci e i rumori di vita che un tempo animavano quelle pietre. Eppure, sotto l’edera che ricopre le rovine e tra le leggende sussurrate dagli anziani del luogo, sopravvive la memoria di un periodo drammatico: quello dell’Unità d’Italia. Mentre nei libri di scuola si celebrano le gesta dei patrioti del Risorgimento, al Sud quell’epopea unitaria lasciò cicatrici profonde. Questo articolo ripercorre – in forma storico-documentaria – il processo dell’unificazione italiana dal 1860 al 1870, dando voce al punto di vista meridionale: dai campi di battaglia ai paesi incendiati, dalle industrie smantellate alle famiglie costrette all’emigrazione. È la storia di una conquista, ma anche di una perdita, tramandata in memorie familiari, leggende popolari e pagine di storia a lungo ignorate.
Il Regno delle Due Sicilie prima dell’Unità: un Sud vitale e isolato
All’alba del 1860, il Regno delle Due Sicilie (che comprendeva tutto il Sud peninsulare e la Sicilia) appariva come una terra dalle molte contraddizioni. Agli occhi di viaggiatori e statisti dell’epoca, il Sud presentava segni di arretratezza sociale ma anche notevoli eccellenze economiche e tecnologiche. Dal punto di vista industriale, il regno borbonico vantava primati sorprendenti: alcuni autori meridionalisti sostengono che fosse addirittura la terza potenza industriale mondiale dopo Gran Bretagna e Francia . Al di là delle possibili esagerazioni, è indubbio che Napoli e il suo regno avessero raggiunto traguardi di rilievo: nel 1839 si era inaugurata la prima ferrovia d’Italia (la Napoli-Portici) e a Pietrarsa, alle porte di Napoli, sorgeva il più grande complesso metalmeccanico della penisola . In Calabria, a Mongiana, operava un polo siderurgico avanzato, mentre il cantiere navale di Castellammare di Stabia era considerato uno dei più grandi del Mediterraneo . L’acciaio prodotto a Mongiana alimentava la cantieristica e le ferrovie duosiciliane, garantendo al Regno delle Due Sicilie una certa autonomia industriale .
Sul piano economico-finanziario, le casse borboniche erano solide: il regno disponeva di ingenti riserve auree e di una valuta forte. Si stima che le monete d’oro napoletane costituissero circa i due terzi delle riserve di tutta la penisola italiana preunitaria . Questa prosperità relativa, tuttavia, conviveva con gravi problemi sociali: vaste aree rurali erano controllate dai grandi latifondisti, la maggioranza della popolazione contadina viveva in condizioni di povertà e analfabetismo, e le tensioni sociali covavano sotto la superficie. Il governo borbonico, da parte sua, manteneva un rigido controllo poliziesco e censura, specialmente dopo le rivolte costituzionali del 1848. L’immagine di un regno immobile e oppressivo fu in parte amplificata dalla propaganda dei suoi nemici, ma vi erano elementi di verità: negli anni ‘50 dell’Ottocento la monarchia di Ferdinando II e poi di Francesco II appariva politicamente isolata in Europa e minata da una crescente opposizione interna . Nonostante qualche tentativo di riforma, il malcontento serpeggiava: borghesia liberale, repubblicani mazziniani e perfino settori popolari chiedevano cambiamenti.
Questa era la situazione alla vigilia dell’Impresa dei Mille, la spedizione garibaldina che avrebbe incendiato il Sud. Un regno con luci e ombre, con telegrafi e fabbriche moderne ma anche col suo popolo in fermento. Ed è in questo contesto che il Sud si trovò investito dal turbine dell’unificazione, guidata dal giovane stato espansionista sabaudo.
La Spedizione dei Mille e la caduta del Regno Borbonico
Nel maggio 1860 il vento della storia soffiò improvvisamente sul Mezzogiorno: Giuseppe Garibaldi, con appena un migliaio di volontari in camicia rossa, sbarcò a Marsala in Sicilia, dando avvio a una campagna militare destinata a travolgere il Regno delle Due Sicilie. In Sicilia il malcontento contro i Borbone era già esploso in rivolte locali e Garibaldi seppe canalizzarlo a proprio favore. Ovunque egli andasse, si cercò di far leva sullo scontento contadino e sull’aspirazione a riforme. Celebre è il caso di Bronte, alle pendici dell’Etna, dove nell’estate 1860 i contadini insorsero occupando le terre degli aristocratici locali. La sommossa degenerò in violenze contro i proprietari (definite un’“orgia di terrore” dallo storico Denis Mack Smith ) e Garibaldi dovette inviare il suo generale di fiducia, Nino Bixio, a ristabilire l’ordine. “È necessario l’esempio e l’avranno tremendo”, scrisse Bixio prima di reprimere ferocemente la rivolta: fece fucilare i capi ribelli in esecuzioni sommarie e incarcerare centinaia di contadini . L’episodio di Bronte anticipò una tragica costante: il processo unitario sarebbe stato segnato, soprattutto al Sud, da una scia di sangue e repressioni brutali.
Conquistata la Sicilia, Garibaldi attraversò lo Stretto di Messina e, nell’agosto 1860, sbarcò in Calabria. Qui l’avanzata fu fulminea: interi reparti dell’esercito borbonico si sbandarono o passarono dalla sua parte, mentre le città (da Reggio a Napoli) cadevano senza opporre quasi resistenza. Napoli, capitale del regno, venne raggiunta dai garibaldini il 7 settembre 1860: il giovane re Francesco II di Borbone si era già ritirato nella fortezza di Gaeta insieme alle ultime truppe fedeli. La gente di Napoli – non senza divisioni interne – accolse Garibaldi con curiosità e in parte con entusiasmo, sebbene non mancassero sacche di fedeltà borbonica. Nel frattempo, da nord scendeva l’esercito piemontese del re Vittorio Emanuele II: con la battaglia di Castelfidardo (settembre 1860) esso sconfisse le truppe pontificie e aprì la strada verso l’incontro con Garibaldi. Il 26 ottobre 1860, a Teano, nei pressi di Caserta, Garibaldi consegnò simbolicamente a Vittorio Emanuele la sovranità sulle terre conquistate – il celebre incontro in cui pare abbia salutato il re come “Re d’Italia”.
Caduta anche Gaeta nel febbraio 1861, ogni resistenza organizzata del Regno delle Due Sicilie fu stroncata. Con un plebiscito (consultazione popolare) – definito da taluni una “farsa” orchestrata per legittimare l’invasione sabauda – le province meridionali sancirono l’annessione al Regno di Sardegna. Il 17 marzo 1861 fu proclamato ufficialmente il Regno d’Italia, con capitale Torino.
Ma se la bandiera tricolore sventolava ormai dal Piemonte alla Sicilia, la realtà sul campo nel Sud era tutt’altro che pacificata. Dietro la conquista militare lampo covavano rancori, paure e tensioni pronti a esplodere. Come disse efficacemente lo storico Denis Mack Smith, l’unificazione fu ottenuta “a suon di baionette e atti burocratici” e comportò “un alto costo di vite umane a svantaggio soprattutto del Sud d’Italia” . Ed è proprio il Sud appena “liberato” che iniziò ben presto a pagare quel costo altissimo.
Il destino dell’esercito borbonico: soldati sconfitti, prigionieri e dimenticati
La rapida caduta del Regno delle Due Sicilie nel 1860-61 lasciò decine di migliaia di uomini dell’esercito regolare borbonico in una situazione drammatica. Che ne fu di questi soldati del Sud, fedeli al loro re sino all’ultimo? Molti di loro finirono dispersi, altri si dettero alla macchia per evitare la resa, altri ancora deposero le armi sperando in un trattamento onorevole. Purtroppo per loro, il nuovo Regno d’Italia non fu clemente. Migliaia di ex soldati borbonici furono fatti prigionieri e inviati in campi di detenzione improvvisati lontano dalla loro terra. Il caso più noto è quello del forte di Fenestrelle, una gelida fortezza in Piemonte, dove furono internati numerosissimi militari meridionali considerati pericolosi o renitenti.
Autori meridionalisti hanno descritto Fenestrelle e altri luoghi di prigionia settentrionali come veri e propri “campi di concentramento” ante litteram: secondo queste ricostruzioni, i prigionieri patirono fame, freddo e malattie, morendo a centinaia in condizioni disumane. Si parla persino di corpi di soldati meridionali dissolti nella calce viva per cancellarne le tracce . Anche se la storiografia ufficiale è prudente su tali affermazioni, è certo che le condizioni di detenzione furono durissime e che il numero di morti tra i prigionieri fu elevato. Uno storico militare, Alessandro Barbero, ha stimato che diverse migliaia di soldati del disciolto esercito delle Due Sicilie persero la vita per stenti o malattie nei vari luoghi di prigionia tra il 1861 e il 1865.
Coloro che invece scelsero di arruolarsi nel nuovo esercito italiano spesso andarono incontro a diffidenza e discriminazione. Pochi ufficiali borbonici furono integrati con ruoli di rilievo; la maggior parte dovette congedarsi. I soldati semplici meridionali che vestirono la divisa sabauda si trovarono talora mandati a combattere ex commilitoni e conterranei insorti (un trauma nel trauma), oppure furono spediti lontano, a presidiare frontiere alpine o a combattere nel Veneto contro l’Austria.
La grande massa degli ex combattenti, però, scelse un’altra strada: tornare a casa e imbracciare di nuovo le armi, questa volta da ribelli. Molti contadini-soldati, una volta sciolti i ranghi borbonici, rientrarono nei propri paesi trovandovi anarchia, povertà e vessazioni peggiori di prima. Nacque così la scintilla di quella che viene chiamata la “guerra del Brigantaggio”.
Brigantaggio post-unitario: la guerra nascosta nel Sud
Appena qualche mese dopo la proclamazione dell’Unità, il Mezzogiorno continentale precipitò in uno stato di ribellione diffusa e violenta. Le campagne meridionali divennero teatro di quella che alcuni storici definiscono “una vera e propria guerra civile” combattuta tra il 1861 e il 1865, anche se per lungo tempo è stata liquidata come semplice fenomeno di criminalità (“brigantaggio” in senso dispregiativo). In realtà, la ribellione ebbe cause profonde: la disperazione dei contadini senza terra, la nostalgia del deposto re Borbone fomentata dai legittimisti e dal clero lealista, l’odio verso i nuovi funzionari piemontesi percepiti come occupanti, e la resistenza di ex soldati che preferivano vivere da fuorilegge piuttosto che piegarsi. Tutto questo alimentò bande armate in quasi tutte le province meridionali .
Già nell’inverno 1860-61 focolai di rivolta anti-sabauda ardevano in Basilicata, in Capitanata, nell’Irpinia. Nell’estate 1861 il movimento insurrezionale esplose: in Basilicata si formarono circa quaranta bande armate; in un’area tra Campania e Lucania il celebre capobanda Carmine Crocco radunò centinaia di uomini, occupando città come Melfi e Venosa . Dall’estero giunsero aiuti ai ribelli: l’ex generale borbonico José Borjes sbarcò dalla Spagna per guidare militarmente le bande, sperando di restaurare Francesco II sul trono . Intere zone del Sud sfuggirono al controllo statale: province come l’Abruzzo, il Molise, il Cilento divennero insicure; persino nei dintorni di Napoli, nei casali e nelle colline, si aggiravano gruppi armati tanto che i sobborghi della stessa Napoli risultavano “infestati da briganti” .
Il nuovo governo italiano reagì con crescente durezza. Furono inviati al Sud oltre 100.000 soldati regolari (due terzi dell’intero esercito nazionale, secondo alcune fonti) per soffocare la rivolta . Paese per paese, vallata per vallata, si procedette con spedizioni militari, rastrellamenti, assedi. Alcuni villaggi sospettati di fiancheggiare i briganti vennero letteralmente rasi al suolo e dati alle fiamme. Il caso più atroce fu quello di Pontelandolfo e Casalduni, due piccoli centri del Sannio: nell’agosto 1861, dopo che alcuni briganti uccisero soldati italiani, reparti di bersaglieri compirono una feroce rappresaglia. Donne, anziani e bambini furono massacrati e le case incendiate; le vittime civili furono centinaia, in una strage che storici contemporanei hanno paragonato a quelle naziste del secolo successivo . “Il Sud ha subito massacri e stupri indicibili… i nazisti hanno imparato dagli italiani”, scriverà molti anni dopo il giornalista Paolo Mieli, riferendosi proprio a eccidi come Pontelandolfo .
Nella retorica ufficiale di quegli anni, i ribelli meridionali erano bollati come semplici “briganti” e “malfattori”. Ma il velo della retorica non poteva nascondere la realtà di un conflitto lacerante. “I briganti non erano comuni delinquenti ma combattenti partigiani contro l’occupazione piemontese”, ha osservato ancora Paolo Mieli, sottolineando come quei meridionali furono vittime di una visione razzista da parte dei vincitori del Nord . In effetti, sulla stampa settentrionale dell’epoca non era raro leggere descrizioni sprezzanti dei meridionali come barbari, pigri, geneticamente criminali. Tali pregiudizi diedero una sorta di giustificazione morale alla repressione durissima.
Questa repressione toccò il culmine con il varO della Legge Pica. Nell’agosto 1863 il Parlamento italiano approvò questa legge speciale che dichiarava lo stato di brigantaggio in tutte le province meridionali e attribuiva poteri eccezionali ai militari . Tribunali di guerra, esecuzioni sommarie, arresti senza garanzie, coprifuoco e deportazionifurono strumenti legalizzati per “pacificare” il Sud . In pratica, l’intero Mezzogiorno continentale fu sottoposto a legge marziale . Molti degli strumenti repressivi temporanei divennero poi permanenti: anche dopo la fine formale del brigantaggio, misure come il domicilio coatto (il confino forzato) restarono in vigore, e lo Stato conservò un volto autoritario soprattutto verso le classi umili. “In quei primi anni Sessanta del XIX secolo, nel Sud il governo mostrò permanentemente un volto illiberale”, ammette lo storico Salvatore Lupo .
I numeri della “guerra al brigantaggio” danno la misura del dramma: si stima che tra il 1861 e il 1872 furono uccisi in conflitto circa 5.000 presunti briganti e fucilati dopo processo o catturati altri 5.000; oltre 15.000 furono arrestati e migliaia emigrarono o si diedero alla latitanza. Le perdite tra i militari italiani furono anch’esse pesanti (circa 1.000 caduti). Alcuni autori meridionalisti arrivano a conteggiare, considerando anche i civili morti per fame, malattie e conseguenze indirette, fino a un milione di vittime meridionali causate dall’unificazione – un numero su cui gli storici dissentono, ma che dà l’idea di quanto profonda sia percepita la ferita nel tessuto sociale del Sud.
Verso il 1865-66, il fenomeno andò scemando. I principali capibanda vennero uccisi o traditi (Carmine Crocco si arrese, il generale Borjes fu catturato e fucilato nel 1863 , il leggendario brigante Pasquale Romano cadde nel 1867). Senza una direzione unitaria, privi di appoggi internazionali efficaci e logorati da anni di latitanza, gli ultimi gruppi depredarono più per sopravvivenza che per ideale politico, perdendo gradualmente l’appoggio delle popolazioni locali stremate. Ma la “pacificazione” fu ottenuta su un cumulo di macerie materiali e morali. Il Mezzogiorno usciva da quegli anni unificato al resto d’Italia sulla carta, ma più diviso che mai nello spirito.
Il “sacco del Sud”: industrie smantellate e declino economico
Mentre nelle campagne infuriava la guerriglia, nelle città e nei distretti industriali del Sud andava in scena un altro dramma: quello del collasso economico e produttivo di un territorio che, prima dell’Unità, aveva conosciuto un certo sviluppo. Molti storici economici concordano sul fatto che l’unificazione politica non fu affiancata da una vera unificazione economica, e che anzi il Mezzogiorno subì un duro colpo al suo tessuto produttivo nei primi anni post-1861 .
Le cause furono molteplici. Innanzitutto, il cambio di politiche commerciali: il Regno sabaudo, a differenza di quello borbonico, applicava il libero scambio e abolì le tariffe protezionistiche che difendevano le manifatture meridionali dalla concorrenza straniera. Inondati da merci inglesi a basso prezzo e privati al contempo delle commesse statali borboniche (che prima alimentavano arsenali, cantieri e fabbriche locali), molti stabilimenti del Sud finirono per chiudere. Inoltre, il nuovo governo di Torino aveva proprie industrie da sostenere al Nord e mostrò scarso interesse a salvare quelle meridionali in difficoltà.
Emblematico è il caso delle ferriere di Mongiana in Calabria. Quel centro siderurgico, vanto del regno borbonico, fu chiuso nel 1862. Gli storici discutono se fu una scelta obbligata dalle perdite economiche o deliberata, ma autori meridionalisti denunciano chiaramente un disegno politico. “La siderurgia calabrese fu soppressa dal governo unitario solo perché era situata nel Meridione; l’industria italiana doveva essere settentrionale”, scrive ad esempio Pino Aprile . A Mongiana, quando i forni si spensero, 1.200 operai persero il lavoro e quel piccolo borgo entrò in un coma economico da cui non si riprese più.
Analoga sorte toccò alle Officine di Pietrarsa, presso Napoli, che da maggior centro metallurgico d’Italia si ridussero quasi alla paralisi. La gestione piemontese, subentrata ai Borbone, licenziò maestranze e tagliò gli stipendi. Il malcontento sfociò presto in protesta: il 6 agosto 1863 a Pietrarsa gli operai in sciopero chiedevano di salvare il proprio lavoro e la propria dignità, ma furono affrontati con la forza. Un battaglione di bersaglieri aprì il fuoco sui lavoratori napoletani: quattro operai caddero uccisi e venti rimasero feriti, nella prima strage di operai dell’Italia unita . Questa tragedia, poco nota nei manuali, simboleggia il destino dell’industria meridionale: strangolata dalla nuova realtà politica. “All’indomani dell’Unità d’Italia, la borghesia settentrionale alla guida dello Stato strinse un cappio al collo della promettente industria meridionale”, osserva amaramente un cronista dell’epoca .
Oltre alla chiusura degli stabilimenti, il Sud subì un vero esodo di risorse finanziarie. Il nuovo stato unitario assorbì le riserve auree borboniche (trasferite a Torino) e impose un sistema fiscale uniforme che però incise maggiormente sulle province povere. Basti pensare all’introduzione della tassa sul macinato (una tassa sulla produzione di farina, gravissima per i contadini) e all’obbligo della leva militare obbligatoria per tutti i giovani maschi (che privava le famiglie di braccia lavorative). Inoltre, l’enorme debito pubblico contratto dal Piemonte nelle guerre d’indipendenza venne ora ripartito su tutto il Regno d’Italia, costringendo anche le popolazioni meridionali – che avevano conosciuto tasse più leggere sotto i Borbone – a contribuire a risanarne il peso. Il risultato fu un impoverimento generale: già negli anni ’70 dell’Ottocento, indicatori economici come reddito pro-capite, alfabetizzazione, investimento in infrastrutture vedevano un divario crescente tra Nord e Sud. La “Questione meridionale” – espressione coniata in quei decenni per indicare l’arretratezza del Sud unito rispetto al Nord – affonda le sue radici proprio in questo squilibrio post-unitario.
Alcuni autori radicalizzano l’analisi sostenendo che lo sfruttamento del Sud non fu una conseguenza involontaria, ma addirittura uno degli scopi dell’Unità. “L’impoverimento del Meridione per arricchire il Nord non fu la conseguenza, ma la ragione dell’Unità d’Italia”, scrive provocatoriamente il giornalista Pino Aprile . È una tesi forte, respinta da vari storici, ma che trova eco in numerosi studi e denunce: dall’enorme saccheggio di opere d’arte e tesori portati via da Napoli , fino alla concessione di terre ed ex proprietà demaniali del Sud a nobili e borghesi settentrionali fedeli ai Savoia.
Al di là delle interpretazioni, i fatti descrivono un Sud in ginocchio: fabbriche chiuse, cantieri deserti, capitali fuggiti, strade e ferrovie promesse ma realizzate col contagocce. L’ex regno duosiciliano, che nel 1860 aveva una sua flotta commerciale seconda solo a quella inglese e qualche settore all’avanguardia, nel giro di vent’anni vide i propri porti svuotarsi e la propria capacità produttiva dimezzarsi. Su queste macerie economiche fiorirà, a fine secolo, un altro “primato” tristemente noto del Sud: quello dell’emigrazione di massa.
Dal nuovo Regno all’emigrazione: il prezzo umano e sociale
Completata l’unificazione politica con la presa di Roma nel 1870 – ultimo atto del Risorgimento, quando i bersaglieri entrarono nella capitale ponendo fine allo Stato Pontificio – l’Italia era finalmente una, almeno sulle carte geografiche. Ma nel frattempo il tessuto sociale del Mezzogiorno andava sfilacciandosi come mai prima. Gli anni successivi all’Unità videro infatti il dilagare della povertà e dell’insicurezza in ampie zone del Sud, spingendo centinaia di migliaia di meridionali a lasciare la propria terra natìa.
Già negli anni immediatamente successivi alla fine del brigantaggio, molte famiglie contadine stremate scelsero la via dell’esilio volontario all’estero, piuttosto che restare a patire miseria e soprusi. Fu l’inizio di quella che sarà ricordata come la Grande Emigrazione Italiana: un esodo epocale dalle campagne verso le Americhe e altre destinazioni oltreoceano. Tra il 1876 e il 1915, milioni di italiani del Sud partirono con la valigia di cartone, stipati nei bastimenti diretti a New York, Buenos Aires, São Paulo. Complessivamente, tra il 1870 e la Prima Guerra Mondiale emigrarono circa 14 milioni di italiani, in maggioranza meridionali . Interi paesi si svuotarono dei giovani: chi visitava le regioni del Sud a fine Ottocento trovava spesso solo donne, bambini e anziani a coltivare la terra – gli uomini validi erano “in America”.
Questo spopolamento ebbe conseguenze profonde. Borghi un tempo vivi divennero villaggi fantasma. Alcuni centri agricoli dell’entroterra lucano, calabrese e siciliano persero metà della popolazione nel giro di pochi decenni. Le case abbandonate cadevano in rovina, e con esse andava perdendosi anche la memoria storica locale. Molti di quei migranti non fecero mai ritorno, e i loro discendenti oggi vivono dall’altra parte dell’oceano, magari con un cognome italianissimo ma senza un legame diretto con la terra d’origine se non nei ricordi tramandati.
Chi restò dovette adattarsi a una nuova realtà sociale. Il Mezzogiorno divenne terra di emigranti e di “sconfitti”, secondo la narrativa popolare. I governi post-unitari tentarono alcuni interventi (bonifiche, costruzione di ferrovie costiere, avvio di scuole pubbliche), ma i frutti furono lenti e parziali. Molte promesse risorgimentali – come la riforma agraria per dare terra ai contadini – rimasero lettera morta. I grandi proprietari terrieri del Sud mantennero il controllo di latifondi immensi, anzi si rafforzarono grazie anche alle alleanze con la borghesia industriale del Nord (tutelata da nuove tariffe protezionistiche sull’agricoltura a fine secolo) . Il popolo minuto invece rimase in balia di un destino gramo: le alternative erano piegarsi a lavorare per un tozzo di pane, o partire verso l’ignoto oltremare.
Tutto questo costituì il “prezzo umano” dell’Unità per il Sud: un costo fatto di lacrime e addii, di comunità disgregate, di identità smarrite. “Fummo calpestati e ci vendicammo”, aveva detto un brigante riassumendo la ribellione dei vinti . Ma dopo la sconfitta finale, ai meridionali non restò nemmeno la vendetta: solo la rassegnazione o la fuga. La ferita demografica del Sud si sarebbe rimarginata solo molto tempo dopo, e in parte non è chiusa nemmeno oggi.
Memoria negata e memorie ritrovate: il Risorgimento visto dal Sud
Per oltre un secolo, la storia ufficiale italiana ha in gran parte taciuto queste pagine dolorose. Nei libri scolastici il racconto dell’Unità d’Italia è stato dipinto a lungo in tinte patriottiche e agiografiche: i Mille che portano la libertà, il “progresso” che unifica finalmente la nazione, e il brigantaggio ridotto a nota criminale a margine. Le voci del Sud sconfitto sono rimaste ai margini, custodite nelle tradizioni orali, nei racconti familiari e nelle ricerche di pochi studiosi coraggiosi. “I libri di storia che circolano nelle scuole tacciono. I documenti che non sono stati distrutti vengono nascosti” – denunciava amaramente Pino Aprile – “i meridionali, man mano che ci si allontanava da quei fatti, dimenticavano e rimuovevano” .
Eppure, sotto la cenere della narrazione ufficiale, la brace della memoria ha continuato a ardere nel Meridione. In molte famiglie del Sud si sono tramandate storie diverse da quelle dei manuali. C’è chi ricorda il bisnonno contadino arruolato a forza e mai tornato dalla “guerra ai briganti”, chi conserva in soffitta la logora giubba borbonica di un antenato soldato, chi racconta ai nipoti le gesta di un avo brigante celebrato come una sorta di Robin Hood locale. In certe comunità della Calabria e della Basilicata, ancora a metà Novecento, la parola “piemontese” veniva usata come insulto o spauracchio per far star buoni i bambini. Segno che la ferita era tutt’altro che dimenticata nella coscienza popolare.
A partire dagli anni ‘90 del XX secolo, e ancor più dopo il 150º anniversario dell’Unità (2011), c’è stato un risveglio di interesse per questa “altra versione” del Risorgimento. Convegni, libri, documentari e perfino film hanno portato alla luce documenti sepolti e testimonianze sui fatti del Sud post-unitario. Si è sviluppata una corrente di pensiero cosiddetta “neomeridionalista” o “neoborbonica” che vuole rileggere la storia unitaria dal punto di vista delle popolazioni meridionali. Riviste dai titoli emblematici come “Il Brigante” o “Due Sicilie” hanno iniziato a circolare , mentre sul web fioriscono siti e blog che rivendicano “l’altra storia”. Molti giovani del Sud scoprono con stupore eventi di cui i loro nonni sussurravano appena.
Parallelamente, elementi culturali e simbolici di quel passato sono stati recuperati. Alcuni borghi semideserti organizzano rievocazioni storiche dei fatti del 1861; musei locali raccolgono cimeli dei briganti e dell’esercito borbonico. A Casalduni e Pontelandolfo si tengono commemorazioni delle vittime del massacro, quasi a voler istituire un “giorno della memoria” meridionale. In Calabria, a Mongiana, il comune ha restaurato gli stabilimenti siderurgici borbonici trasformandoli in un museo, come a dire che quella storia industriale cancellata nel 1862 è oggi motivo di orgoglio identitario. Nei nomi propri resistono tracce sorprendenti: si racconta che proprio a Mongiana un terzo dei bambini maschi porti ancora il nome Ferdinando, in onore dei re Borbone sconfitti, testimonianza di una fedeltà dinastica che sopravvive nelle tradizioni locali .
Soprattutto, sta cambiando il modo in cui vengono percepiti i protagonisti di allora. La parola “brigante” ha iniziato a perdere l’accezione esclusivamente negativa, diventando quasi sinonimo di ribelle coraggioso nelle terre del Sud . “Le famiglie meridionali si sentono onorate se scoprono di aver avuto un brigante tra i loro antenati”, scrive ancora Aprile, sottolineando come sia in atto una rivalutazione culturale di quelle figure una volta infamate . È un fenomeno complesso: non si tratta di negare le violenze commesse dai briganti, ma di contestualizzarle in una storia di disperazione e resistenza all’oppressione.
Non mancano, naturalmente, le polemiche. Storici accademici invitano alla prudenza per evitare mitizzazioni contrapposte: se un tempo si mitizzavano eccessivamente i “piemontesi liberatori”, oggi c’è chi rischia di mitizzare i “briganti partigiani” e i Borbone come età dell’oro. La verità, come sempre, sta nel mezzo e va ricercata con equilibrio. Ma ciò non toglie che finalmente l’Italia abbia iniziato a fare i conti con quelle antiche ferite. “Le ferite del passato non si cicatrizzano mai… Dovremmo considerare lo studio della storia come il modo di tenerle sotto controllo”, ha scritto Paolo Mieli, ammonendo che i traumi storici non vanno rimossi ma affrontati . E la lunga rimozione del trauma meridionale post-unitario forse ha contribuito, per decenni, a mantenerlo vivo sotto traccia.
Oggi, conoscere ciò che avvenne nel Sud tra il 1860 e il 1870 non significa mettere in discussione l’Unità d’Italia in sé – che resta un fatto storico di enorme portata – ma significa arricchire la nostra visione di quella vicenda, includendo chi ne soffrì le conseguenze più dure. Significa dare nome e dignità ai vinti della storia, senza per questo dover sminuire i vincitori. Come diceva Giustino Fortunato, uno dei primi meridionalisti, l’Italia unita sarà completa solo quando avrà davvero compreso e integrato il suo Mezzogiorno.
Conclusione: una nazione, due memorie
Nel 1870, quando la Breccia di Porta Pia sancì la fine del Risorgimento, il Sud d’Italia era già un mondo in lutto, attraversato da lunghe file di emigranti diretti al porto. Da un lato c’erano le fanfare che celebravano la nascita della nazione, dall’altro il silenzio spettrale di villaggi decimati e il pianto delle madri che salutavano i figli in partenza. Due memorie parallele hanno convissuto a lungo sotto il tricolore.
Oggi, 160 anni dopo, quelle memorie iniziano a parlarsi. L’Italia sta gradualmente riconoscendo che la sua Unificazione fu un processo doloroso e complesso, non un idillio romantico. La grande ferita del Sud – fatta di sangue, di esodi e di impoverimento – è parte integrante della storia nazionale. Raccontarla non significa dividere, ma anzi può servire a ricucire davvero il Paese, rendendo onore a tutte le sue componenti.
Nel blog “Storie Cittadine” abbiamo voluto ripercorrere questo capitolo con uno sguardo meridionale, dando spazio a voci a lungo inascoltate. Abbiamo visto come “i piemontesi non hanno unificato l’Italia, hanno allargato il Piemonte e a noi… ci hanno rovinato” – per citare le parole crude di un testimone meridionale riportate in un memoriale familiare . Affermazioni forti, certo, nate dal dolore di chi quella “unità” la subì come un’occupazione. Ma affianco a esse abbiamo registrato anche le voci di storici e intellettuali che invitano a non dimenticare: da Denis Mack Smith, che ci ricordò il costo umano enorme pagato soprattutto dal Sud , a Paolo Mieli che ha definito quei fatti una storia negata di massacri indicibili e di patrioti chiamati briganti .
In definitiva, raccontare il prezzo pagato dal Sud nel Risorgimento significa rendere giustizia a generazioni di italiani meridionali che hanno comunque contribuito a costruire l’Italia, sebbene spesso dalle posizioni più umili e sofferte. Quei contadini in armi, quegli operai uccisi a Pietrarsa , quei paesani di Pontelandolfo bruciati vivi, meritano un posto nel nostro pantheon nazionale al pari degli eroi più celebrati. Le leggende e le memorie familiari del Sud – i racconti dei “briganti buoni”, le lacrime per il re perduto, l’orgoglio per un’antica grandezza industriale spezzata – fanno parte del mosaico dell’identità italiana.
Forse, come auspicava Paolo Mieli, queste storie entreranno un giorno nei libri di scuola, e un ragazzo di Milano o di Torino studierà con rispetto anche la storia di Carmine Crocco o di Mongiana accanto a quella di Cavour e Garibaldi. Allora sì che l’Unità d’Italia potrà dirsi pienamente compiuta: non solo un’unità di territori sotto una stessa bandiera, ma un’unità di cuori e di memorie, capace di abbracciare finalmente anche il lungo, tormentato cammino del Sud.
Fonti e riferimenti:
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Denis Mack Smith mise in luce per primo il costo umano dell’unificazione, “a svantaggio soprattutto del Sud d’Italia” .
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Pino Aprile, Terroni (2010) – Saggio giornalistico di taglio meridionalista, da cui sono tratte molte delle citazioni sulle violenze subite dal Sud: es. “impoverimento del Meridione… ragione dell’Unità” e la denuncia dello smantellamento industriale di Mongiana .
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Treccani – Enciclopedia dell’Unificazione: voce “Il sud e i conflitti sociali” – analisi storiografica sull’instabilità del Mezzogiorno post-1860 e sulla repressione (es. Legge Pica, tribunali militari ed esecuzioni sommarie) .
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Paolo Mieli, giornalista e storico, ha riconosciuto i massacri commessi dall’esercito piemontese (Pontelandolfo, Casalduni) e rivalutato la natura politica del brigantaggio (“briganti come partigiani contro l’occupazione”) .
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Vicende simbolo: Bronte 1860 (rivolta contadina e repressione di Bixio) ; strage di Pontelandolfo 1861 (civili massacrati) ; strage di Pietrarsa 1863 (operai uccisi dai bersaglieri) .
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Testimonianze popolari e memorie familiari raccolte in studi recenti (es. Alessandro Romano, discendente del “Sergente Romano” brigante legittimista, che riferisce i racconti di famiglia: “i piemontesi non hanno unificato l’Italia, hanno allargato il Piemonte…” ).
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